Rimasero sorpresi quando ottennero l'appartamento, visti gli affitti alle stelle di quegli anni e le norme-capestro dei contratti. Joe Calderon si considerò fortunato ad essere a soli dieci minuti di metropolitana dall'università. Sua moglie Myra si arruffò i capelli con aria distratta e disse che i proprietari probabilmente si aspettavano che gli inquilini si riproducessero per partenogenesi. Intendeva riferirsi al processo per cui un singolo organismo si scinde in due, dando come risultato due semplari già adulti. Calderon sogghignò: «Scissione binaria, sciocchina», la corresse. E si volse a guardare il giovane Alexander, diciotto mesi, che zampettava sul pavimento, accingendosi a rizzarsi in piedi sulle gambe grassocce e arcuate.

Era, in ogni caso, un appartamento più che discreto, assai soleggiato, con più stanze di quante avessero avuto il diritto di aspettarsi, a quel prezzo. La signora della porta accanto, una bionda ancheggiante che parlava quasi esclusivamente delle sue emicranie, disse che lì, al 4-D, gli inquilini non duravano molto. Non che fosse precisamente infestato dai fantasmi, ma continuava a ricevere strani visitatori. L'ultimo inquilino, un assicuratore che beveva parecchio, un bel giorno se n'era andato bofonchiando di certi omettini che venivano a suonargli il campanello a tutte le ore chiedendogli di un certo signor Pott, o qualcosa di simile. Solo alquanto tempo dopo Joe associò «Pott» con «Cauldron»... Calderon.

Erano seduti sul divano, soddisfatti, intenti a guardare Alexander. Era davvero un bel bambino. Come tutti i bambini, aveva un cospicuo rotolo di grasso dietro al collo, e le sue gambe, diceva Joe, erano due robusti pilastri senza giunture, o almeno facevano quell'effetto. Non si poteva guardare quel bambino, così gonfio e roseo, senza restarne affascinati. Alexander, rise gorgogliando, si alzò in piedi, e si avviò barcollando come un ubriaco verso i suoi genitori, farfugliando parole incomprensibili.

«Amor mio», gli disse Myra, grondante affetto, lanciando al bambino un morbido porcellino di velluto, che era il suo balocco preferito.

«Così eccoci pronti per l'inverno», dichiarò Calderon. Era un uomo alto, magro, l'espressione arguta. Un eccellente fisico sperimentale, molto preso dal suo lavoro all'università. Myra era una testarossa dalla figura snella, il naso sbarazzino e occhi castano-chiari, vivaci. Esalò un dolente sospiro.

«Se troveremo una domestica. Altrimenti, toccherà a me far la donna a ore».

«Sembri un'anima persa», osservò Calderon. «Cosa intendi dire, con questo far la donna a ore?»

«Far tutti i servizi in casa, ovviamente: lavare, cucinare, scopare. I bambini costano parecchia fatica... anche se ne valgono la pena».

«Non dirlo davanti ad Alexander. Monterà in superbia».

Il campanello squillò alla porta d'ingresso. Calderon srotolò il lungo corpo, attraversò perplesso la stanza, e aprì la porta. Sbatté le palpebre, stupito, davanti al vuoto. Poi abbasso un po' lo sguardo, e ciò che vide fu sufficiente a fargli strabuzzare gli occhi.

Quattro ometti erano lì, nel corridoio. Piccoli, sì, ma soltanto dalla fronte in giù. I loro crani erano immensi, più grossi d'un melone e della stessa forma, a meno che non portassero dei caschi smisurati di metallo lucido. Avevano il volto vizzo, minuscole maschere aguzze coperte da una fitta rete di rughe e di grinze. Portavano indumenti sgargianti, dai colori sgradevoli, che sembravano fatti di carta.

«Oh?» fece Calderon.

I quattro si scambiarono rapide occhiate. Uno dei quattro chiese: «Lei è Joseph Calderon?»

«Già».

«Noi», disse il più rugoso dei quattro, «siano i discendenti di suo figlio. È unsuperbambino. Siamo qui per educarlo».

«Sì», rispose Calderon. «Sì, naturalmente. Io... ehi, voi, sentite

«Cosa avete detto?»

«Super...»

«Eccolo là!» gridò un altro dei nani. «È Alexander! Finalmente abbiamo azzeccato il tempo giusto!» Sgusciò tra le gambe di Calderon e schizzò dentro l'appartamento. Calderon fece un inutile tentativo di ghermirlo, e anche gli altri tre, un attimo dopo, l'avevano seguito. Quando Calderon si voltò, li vide tutti e quattro intorno ad Alexander. Myra aveva tirato le gambe sul divano e fissava la scena sbalordita.

«Oh, guardate, guardate qui», esclamò uno dei nani. «Vedete il suo potenziale tefitzie?» La parola suonò proprio «Tefitzie».

«Il suo cranio, Bordent», intervenne un altro. «È la parte più importante! I vyring sono quasi perfettamente coblastabili».

«Meraviglioso», riconobbe Bordent. Si sporse in avanti. Alexander allungò la manina in mezzo a quel groviglio di rughe, afferrò il naso di Bordent e lo torse dolorosamente. Bordent sopportò stoicamente la sofferenza, fino a quando il bambino non mollò la presa.

«Sottosviluppato», commentò, indulgente. «Ci penseremo noi a maturarlo compiutamente».

Myra balzò giù dal divano, afferrò il bambino e si piantò davanti agli ometti. «Joe?» chiese, fremente. «Hai intenzione di sopportare tutto questo? Chi sono questi gnomi maleducati?»

«Dio solo lo sa», rispose Calderon. S'inumidì le labbra. «Che razza di scherzo è questo? Chi vi ha mandato?»

«Alexander», disse Bordent. «Dall'anno... ah, sì... circa il 2450, anno più, anno meno. È praticamente immortale. Un super può restar vittima solo di una morte violenta. E nel 2450 non c'è più violenza».

Calderon sospirò. «No, parlo sul serio. Uno scherzo è uno scherzo, ma...»

«Ci abbiamo provato tantissime volte. Nel 1940, 1944, 1947... sempre intorno a quest'epoca. Ma era sempre troppo presto o troppo tardi. Adesso, finalmente, abbiamo azzeccato il giusto settore temporale. È nostro compito educare Alexander. Dovreste essere orgogliosi di essere i suoi genitori. Noi vi veneriamo, sapete, come il padre e la madre».

«Uh!» gridò Calderon. «Piantatela!»

«Hanno bisogno di prove, Dobish», disse un altro dei quattro. «Ricorda che questa è la prima volta che vengono informati che Alexander è un homo superior».

«Macché uomo!» ribatté Myra. «Alexander è un bambino perfettamente normale».

«È perfettamente supernormale», insisté Dobish. «Noi siamo i suoi discendenti».

«E così, lei sarebbe un superuomo?» chiese Calderon, squadrando, scettico l'ometto.

«Non completamente. Non ce ne sono molti del tipo X libero. La norma biologica è la specializzazione. Soltanto pochi sono totalmente super. Alcuni si specializzano nella logica, altri in vervainità, altri, come noi, sono guide. Se fossimo X liberi, voi non potreste starvene lì a parlare con noi. Neppure guardarci. Noi siamo soltanto parti. Quelli come Alexander sono il glorioso intero».

«Oh, mandali via», lo supplicò Myra, cominciando a stancarsi di tutta la storia. «Mi sento come una di quelle donne disegnate da Thurber».

Calderon annuì. «D'accordo. Ora, signori, fuori di qui, e subito».

«Sì», annuì Dobish. «Hanno proprio bisogno d'una prova. Cosa facciamo? Skyskiniamo?»

«Troppo complicato», obbiettò Bordent. «Qualcosa di diretto, immediato, no? L'immobilizzatore».

Bordent tirò fuori un oggetto dai suoi indumenti cartacei e lo girò tra le mani. Tutte le sue dita, anche il pollice, avevano doppie articolazioni. Calderon senti il corpo trafitto da una leggera scossa elettrica.

«Joe», balbettò Myra, pallidissima, «non riesco più a muovermi».

«Neppure io. Non aver paura. Questo è... è...» S'interruppe.

«Sedetevi» ordinò Bordent, continuando ad armeggiare con l'oggetto. Calderon e Myra arretrarono fino al divano e si sedettero. La lingua era paralizzata come il resto del corpo.

Dobish si avvicinò, si arrampicò sul divano e tolse Alexander dalla stretta di sua madre. Dagli occhi della donna balenarono lampi di orrore.

«Non gli faremo nessun male», garantì Dobish. «Vogliamo soltanto dargli la prima lezione. Hai il necessario, Finn?»

«Nella borsa». Finn tirò fuori dai suoi indumenti una borsa lunga una trentina di centimetri. Da quella borsa cominciarono a uscire oggetti dall'aspetto il più vario... e in quantità incredibile. Ben presto il tappeto ne fu interamente coperto, cose dall'aspetto e dall'uso assurdi, inspiegabili. Calderon riconobbe tra gli altri oggetti, un tesseratto.

Il quarto nano, il cui nome risultò essere Quat, sorrise con aria consolatoria all'indirizzo dei due genitori afflitti. «Guardate pure. Voi non imparerete nulla, non ne avete la potenzialità. Voi siete soltanto homo sapiens. Ma Alexander, invece...»

Alexander era in vena dei suoi peggiori capricci, e in ciò fu straordinario. Con la diabolica cocciutaggine di tutti i bambini, rifiutò di collaborare. Strisciò fulmineamente indietro. Esplose in fragorosi, rauchi singhiozzi. Si fissò caparbiamente in piedi. Si cacciò i pugni in bocca e pianse amaramente. Ciangottò a lungo, parlando di cose incomprensibili. Colpi con una manina stretta a pugno Dobish, facendogli un occhio nero.

Gli ometti sembravano avere una pazienza inesauribile. Due ore più tardi avevano finito. A Calderon parve che Alexander non avesse imparato granché.

Bordent girò di nuovo l'oggetto. Annuì, affabile, e guidò la ritirata. I quattro ometti uscirono dall'appartamento, e un attimo dopo Calderon e Myra poterono muoversi.

La donna balzò in piedi, barcollando sulle gambe intorpidite, agguantò Alexander e ricadde sul divano. Calderon corse alla porta e la spalancò. Il corridoio era vuoto.

«Joe...» disse Myra, terrorizzata, con un filo di voce. Calderon tornò!

indietro e le accarezzò i capelli. Poi abbassò gli occhi sulla testa arricciolata di Alexander.

«Joe... dobbiamo fare qualcosa».

«Non so», disse lui. «Se tutto ciò è davvero accaduto...»

«È accaduto. E avevano con sé tutti quegli oggetti... Oh, Alexander!»

«Non gli hanno fatto del male», insisté Calderon, con voce incerta.

«Il nostro bambino... Non è un superbambino».

«Be'», fece Calderon, «tirerò fuori la mia pistola. Che altro posso fare?»

«Io farò qualcosa», promise Myra. «Piccoli gnomi cattivi! Farò qualcosa, aspetta e vedrai!»

Eppure, non c'era molto che potessero fare.

 

Per tacito accordo, il giorno dopo evitarono l'argomento. Ma alle 4 del pomeriggio, all'identica ora della prima visita, si trovavano al cinema intenti a seguire la proiezione dell'ultimo technicolof. I quattro ometti non sarebbero certo riusciti a trovarli là dentro...

Calderon sentì Myra irrigidirsi, e ancora prima di voltarsi sospettò il peggio. Myra balzò in piedi col fiato mozzo. Le sue dita si strinsero sul braccio del marito.

«È scomparso!»

«Sco... scomparso?»

«Svanito nel nulla. L'avevo in braccio... usciamo di qui!»

«Forse l'hai lasciato cadere», balbettò Calderon, futilmente, e accese un cerino.

Grida di protesta si levarono dalle file dietro di lui. Myra si stava già facendo strada a spintoni verso la corsia. Non c'erano bambini sotto il sedile, e Calderon raggiunse la moglie nell'atrio.

«È sparito», balbettava Myra. «Così. Forse è nel futuro. Joe, cosa faremo?»

Calderon, per un vero miracolo, riuscì a fermare un tassì. «Andiamo a casa. È il posto più probabile, spero».

«Sì, naturalmente. Dammi una sigaretta».

«Sarà nell'appartamento...»

C'era, accoccolato sulle grosse natiche, vivamente interessato al congegno che Quat gli stava esibendo. Il congegno pareva uno sbattiuova dai vivaci colori, con accessori tetradimensionali, e parlava con una voce sottile e acuta. Non in inglese.

Bordent tirò fuori di scatto l'immobilizzatore e cominciò a girarlo tra le mani quando la coppia entrò. Calderon afferrò Myra per le braccia e la trattenne. «Aspetti», si affrettò a dire al nano. «Non è necessario. Non tenteremo nulla».

«Joe!» Myra si contorse, cercando di svincolarsi. «Hai intenzione di permettere che...»

«Zitta!» lui le impose. «Bordent, metta giù quel coso. Vogliamo parlarvi».

«Be'... se promettete di non interrompere...»

«Lo promettiamo». Calderon guidò Myra con dolce violenza fino al divano e ve la tenne ferma. «Senti, cara. Alexander sta bene. Non gli stanno facendo del male».

«Fargli del male... vorrei proprio vedere!» esclamò Finn. «Ci spellerebbe vivi nel futuro, se gli facessimo male nel passato».

«Stai zitto», gli ordinò Bordent, che sembrava il capo dei quattro. «Sono lieto che voglia collaborare, Joseph Calderon. Non mi va di dover usare la forza su un semidio. Dopotutto, lei è il padre di Alexander».

Alexander allungò una mano grassoccia e cercò di toccare il vorticante arcobaleno dello sbattiuova. Ne sembrava affascinato. Quat chiese: «Il kivelish scintilla. Devo vastinare?»

«Non troppo in fretta», raccomandò Bordent. «Diventerà razionale fra una settimana, poi potremo accelerare il processo. Adesso, Calderon, la prego di rilassarsi. Volete qualcosa?»

«Da bere».

«Si riferisce all'alcool», spiegò Finn. «Il Rubaiyat ne parla, non ricordi?»

«Rubaiyat?»

«La gemma rossa che canta nella Dodicesima Biblioteca».

«Ah, sì», annuì Bordent. «È quello. Stavo pensando alla lastra di Javeh, quella con gli effetti-tuono. Vuoi fare un po' di alcool, Finn?»

Calderon deglutì. «Non preoccupatevi. Ne ho un po' nella credenza. Posso...»

«Non siete mica prigionieri». La voce di Bordent suonò afflitta. «È che dobbiamo fornirvi alcune spiegazioni, e dopo di ciò... be', sarà diverso».

Myra scosse la testa quando Calderon le porse un bicchiere, ma lui la fissò con una punta di severità. «Non ti farà male... Bevi».

La donna non aveva distolto per un solo istante lo sguardo da Alexander. Adesso il bambino stava imitando il suono dello sbattiuova. Era vagamente sgradevole.

«Il raggio funziona», annunciò Quat. «Tuttavia il visore mostra una certa resistenza corticale».

«Aggiusta l'angolo d'irradiazione», suggerì Bordent.

Alexander disse: «Modjewabba?»

«Cos'ha detto?» chiese Myra, con voce tesa. «Superlingua?»

Bordent le sorrise. «No. Soltanto linguaggio infantile».

Alexander scoppiò in singhiozzi. Myra intervenne ancora: «Superbambino o no, quando piange così c'è una buona ragione... i vostri insegnamenti si estendono fin lì?»

«Certo», disse Quat, senza scomporsi. Lui e Finn condussero Alexander in bagno. Bordent tornò a sorridere,

«Cominciate a credere», osservò. «Questo ci aiuta».

Calderon trangugiò un paio di sorsate, i fumi caldi del whisky gli scaldarono le guance e lo stomaco, lottando per placare la gelida inquietudine che vi formicolava.

«Se foste umani...» cominciò, dubbioso.

«Se lo fossimo, non saremmo qui. Il vecchio ordine è cambiato. Doveva pur cominciare da qualche parte. Alexander è il primo homo superior».

«Ma perché proprio noi?» chiese Myra.

«Genetica. Avete lavorato tutti e due con la radioattività, e con certe onde elettromagnetiche ad altissima frequenza che hanno influenzato il plasma germinale. Ed è avvenuta la mutazione, tutto qui. D'ora in avanti, si ripeterà. Ma a voi è capitato di essere i primi. Voi morrete, ma Alexander continuerà a vivere, forse per mille anni».

Calderon riprese: «Questa faccenda che voi venite dal futuro... Avete detto che è stato Alexander a mandarvi?»

«L'Alexander adulto. Il superuomo maturo. La nostra è una cultura assai diversa, naturalmente. Al di là della vostra comprensione. Alexander è uno degli X liberi. Mi ha detto, tramite il traduttore automatico, naturalmente: "Bordent, non sono stato riconosciuto come un super fino a quando non ho avuto trent'anni. Fino a quell'età, ho conosciuto soltanto il normale sviluppo dell'homo sapiens. lo stesso non conoscevo il mio potenziale. Ed è stato un male, per me". È stato davvero un male,sapete». Bordent si buttò in una dettagliata spiegazione: «Le complete capacità di un organismo non possono emergere a meno che non gli vengano fornite le più complete possibilità di espansione fin dall'istante della nascita. O quanto meno dell'infanzia. Alexander mi ha detto: "Sono nato circa cinquecento anni fa. Prendi qualche guida con te, e vai nel passato. Trovami quand'ero ancora un neonato e dammi l'addestramento specializzato fin dall'inizio. Credo che espanderà enormente di più le mie facoltà"».

«Il passato...» disse Calderon, pensoso. «Ciò vuol dire che è possibile modellarlo in diversi modi?»

«Be', cambiare il passato influenza il futuro. Non si può alterare il passato senza alterare anche il futuro. Ma le cose tendono sempre a riadattarsi secondo logica. Esiste una normalità temporale a un livello generale. Nella sequenza temporale originaria, Alexander non è stato visitato da noi. Ma adesso le cose sono cambiate. Ma non enormemente. Non è coinvolto nessun momento cruciale, nessuna pietra miliare dell'evolversi degli eventi. L'unico risultato sarà che l'Alexander maturo vedrà realizzato il suo potenziale in maniera completa».

Alexander fu ricondotto nella stanza. Era radioso di felicità. Quant riprese la sua lezione con lo sbattiuova.

«Non c'è niente che voi possiate fare», concluse Bordent. «Credo che adesso l'abbiate capito».

Myra replicò: «Alexander assumerà il vostro aspetto?» La sua voce era tesa.

«Oh, no. È un perfetto esemplare fisico. Io non l'ho mai visto, naturalmente, ma...»

Calderon s'intromise: «Erede dell'intero passato del mondo. Myra, cominci a capire?»

«Sì, un superuomo. Ma è nostro figlio».

«E resterà a voi», si affrettò a rassicurarla Bordent. «Non abbiamo nessuna intenzione di strapparlo all'influenza benefica dei due genitori e della sua casa. Un bambino ne ha bisogno. In effetti, l'atteggiamento di assoluta tolleranza nei confronti dei giovani, caratteristico di quest'epoca, è una caratteristica evolutiva destinata a preparare la comparsa del superuomo, allo stesso modo della graduale scomparsa dell'appendice. In certe epoche della sua storia, l'umanità è particolarmente ricettiva alla preparazione di una nuova razza. Anche se, prima d'oggi, non ha mai avuto un vero successo... soltanto aborti antropologici, per così dire. Quella strizzata al mio naso... Anche se Alexander è così importante,mi rendo perfettamente conto di quanto siano irritanti i bambini. Rimangono inetti per moltissimo tempo, una grande prova di pazienza per i genitori... Più basso è il livello evolutivo di un animale, più in fretta si sviluppano i suoi figli. Ma nella specie umana, ci vogliono anni e anni perché i giovani nati raggiungano la fase dell'indipendenza. Così, la tolleranza dei genitori aumenta in proporzione. Il superbambino, perciò, non diventerà adulto finché non avrà raggiunto, all'incirca, i vent'anni».

Myra intervenne: «Alexander resterà un bambino fino a quell'età?»

«Avrà l'aspetto esteriore di un esemplare di homo sapiens di otto anni, a quell'età. Mentalmente... be', chiamatela irrazionalità. Non sarà al livello della normalità intellettuale ed emotiva. Non sarà assennato più di quanto non lo sia qualunque altro bambino. Ci vuole parecchio tempo perché si sviluppino le facoltà di giudizio. Ma i suoi culmini saranno molto, moltissimo al di sopra di quelli... diciamo dei vostri,quand'eravate bambini».

«Grazie», disse Calderon.

«I suoi orizzonti saranno molto più vasti. La sua mente è capace di afferrare e assimilare molte più cose della vostra. Fate conto che il mondo sia un'ostrica di cui lui è la perla. Non avrà limiti. Ma ci vorrà un po' perché la sua mente, la sua personalità, si affermino».

«Voglio un altro bicchiere», disse Myra.

Calderon glielo versò. Alexander cacciò il pollice nell'occhio di Quat e cercò di cavarglielo. Quat si sottomise, passivo.

«Alexander!» lo rimproverò Myra.

«Stia zitta e ferma», le intimò Bordent. «La capacità di sopportazione di Quat è, ovviamente, molto più sviluppata della vostra».

«Se caverà l'occhio a Quat», commentò Calderon, «tanto peggio per lui».

«Quat non ha nessuna importanza, paragonato ad Alexander. E lo sa».

Fortunatamente per la visione binoculare di Quat, Alexander si stancò subito di quel suo passatempo, e riprese a fissare lo sbattiuova. Dobish e Finn si curvarono sopra il bambino, e presero a fissarlo intensamente. C'era qualcosa, in quella scena, che Calderon percepì... senza riuscire ad afferrarlo.

«Telepatia indotta», spiegò Bordent. «Ci vuole parecchio tempo per svilupparla, per cui, meglio cominciare subito. Vi garantisco che è stato un bel sollievo, centrare finalmente l'epoca giusta. Ho suonato questo campanello almeno un centinaio di volte, ma fino ad ora...»

«Andare», sibilò Alexander, chiaramente. «Andar via tutti. Subito, andare».

Bordent annuì. «Basta per oggi. Saremo qui di nuovo domani. Sarete pronti?»

«Sì, pronti», annuì Myra. «Come sempre, suppongo». Vuotò il bicchiere.

Quella notte finirono per ubriacarsi un po', continuando a parlare di tutta la faccenda. Ormai, non avevano più dubbi sulla realtà di quella storia, viste le straordinarie risorse dei quattro ometti. Myra e Calderon erano più che convinti, ormai, che Bordent e i suoi compagni erano giunti da cinquecento anni nel futuro, obbedendo agli ordini di un futuro Alexander il quale era maturato fino a diventare uno splendido esemplare di superuomo.

«Stupefacente, non è vero?» disse Myra. «Quella piccola bolla di lardo, là in camera da letto, che diventa l'uomo-meraviglia alla dodicesima potenza».

«Be', doveva capitare, prima o poi, come Bordent ci ha fatto notare».

«Insomma, finché non diventa uguale a quei brutti gnomi... ah!»

«Sarà super. Deucalione e... come diavolo si chiama?... siamo noi, i progenitori di una nuova razza».

«Mi sento strana», dichiarò Myra. «Come se avessi generato un elefante bianco».

«Questo non potrebbe mai succederti», disse Calderon, in tono consolatorio. «Su, bevi un altro goccio».

«E perché non dovrebbe capitare anche questo, prima o poi? Alexander è uno swùff!»

«Swùff?»

«Be', perché non posso usare anch'io un po' di parole strane, come quei nanerottoli? Vopish uggle nella Grande Dimora. Chiaro, no?»

«Ma è la loro vera lingua», obbiettò Calderon.

«Alexander parlerà in inglese. Anch'io ho i miei diritti».

«Oh, insomma, non mi sembra che Bordent sia ansioso di violarli. Ha pur detto che Alexander ha bisogno di un caldo ambiente familiare, no?»

«È l'unica ragione per cui non sono ancora impazzita», ribatté Myra. «Fintanto che lui... loro... non ci portano via il bambino...»

Una settimana più tardi, fu ancora più chiaro che Bordent non aveva la minima intenzione di usurpare i diritti dei genitori... almeno non più di quelle due ore d'istruzione al giorno. Durante quelle due ore, gli ometti continuarono a svolgere il loro programma, imbottendo Alexander di tutto il sapere che la sua mente infantile ma super poteva contenere. Non si affidavano ai cubetti colorati, alle filastrocche e all'abaco; i loro arnesi erano misteriosi, futuristici, ma efficaci. E non c'era dubbio che Alexander imparasse. Come le auxine versate sulle radici delle piante ne stimolano potentemente la crescita, così la vitamina dell'insegnamento versata dai nani su Alexander veniva totalmente assorbita, e il suo cervello potenzialmente superumano reagiva espandendosi in tutte le direzioni a prodigiosa velocità.

Già il quarto giorno prese a parlare in modo intelligibile. Il settimo giorno teneva conversazione con disinvoltura, anche se i suoi muscoli infantili, non ancora del tutto sviluppati, tendevano presto a stancarsi. Le sue guance erano ancora muscoli per succhiare, più di ogni altra cosa. Non era ancora completamente uomo, salvo che per sprazzi sporadici. Ma questi sprazzi si facevano sempre più frequenti.

Sul tappeto del soggiorno regnava il più completo disordine. Gli ometti non portavano più via con sé l'attrezzatura, ma la lasciavano ad Alexander perché continuasse ad usarla. Il bambino strisciava e ruzzolava qua e là — non si sforzava più di mettersi dritto e camminare, poiché poteva strisciare con molta meno fatica — tra gli oggetti, ne sceglieva alcuni e li metteva insieme. Myra era uscita a far le spese. Gli ometti si sarebbero fatti vivi soltanto fra mezz'ora. Calderon, stanco dopo una giornata di lavoro all'università, stringeva in mano un bicchiere di whisky e soda e fissava il suo pargolo.

«Alexander», disse.

Alexander non rispose. Incastrò un oggetto in un altro, poi infilò il tutto in un terzo affare, e si sedette con aria soddisfatta. Poi, «Sì?», disse, con una pronuncia imperfetta, ma inequivocabile. Alexander parlava un po' come un vecchio sdentato.

«Cosa stai facendo?» chiese Calderon.

«No».

«Cos'è quell'affare?»

«No».

«No?»

«Io capisco», disse Alexander. «Basta così».

«Già», annuì Calderon. Fissò quel piccolo prodigio con una punta di apprensione. «Non vuoi dirmelo?»

«No».

«Be'... d'accordo».

«Dammi da bere», disse Alexander. Per un attimo, Calderon ebbe la folle idea che il bambino volesse whisky e soda. Poi sospirò, si alzò e tornò col biberon pieno d'acqua.

«Latte», disse Alexander, rifiutando l'acqua.

«Hai detto che volevi da bere. L'acqua si beve, no?» Mio Dio, pensò Calderon, sto discutendo con il bambino. Lo sto trattando come un... come un adulto. Ma non lo è. È un bambino piccolo e grasso accucciato col suo sederino sul tappeto. E sta giocando con un giocattolo che si è...»

Il giocattolo disse qualcosa con una vocina sottile. Alexander mormorò: «Ripeti». Il giocattolo obbedì.

Calderon chiese: «Cos'è?»

«No».

«Roba da matti». Calderon andò in cucina a prendere il latte. Si versò un altro goccetto di whisky. Era come se gli fossero piombati in casa parenti che non vedeva da dieci anni... Come diavolo ci si comportava con un superbambino?

Tornò in cucina dopo aver dato ad Alexander il suo latte. Poco dopo, la chiave di Myra girò nella porta d'ingresso. Il suo grido fece accorrere Calderon.

Alexander stava vomitando, con l'aria di uno scienziato assorto nello studio d'un affascinante fenomeno.

«Alexander!» gridò Myra. «Tesoro, stai male?»

«No», disse Alexander, «sto osservando i miei processi rigurgitativi. Devo imparare il controllo dei miei organi digestivi».

Calderon si appoggiò allo stipite, con un sorriso agro. «Già. E sarà meglio che lo impari subito».

«Ho finito», dichiarò Alexander. «Pulite».

Tre giorni più tardi il bambino decise che i suoi polmoni avevano bisogno di svilupparsi. Gridò. Gridò a tutte le ore, con un'inesauribile serie di variazioni — urla, gemiti, strilli, guaiti, abbaiamenti. E non si interrompeva mai, finché non era soddisfatto. I vicini si lamentarono. Myra insisteva: «Tesoro, c'è forse uno spillo che ti punge? Fammi vedere...»

«Vai via. Sei troppo calda. Apri la finestra. Voglio aria fresca».

«S... sì, tesoro. Naturalmente». Quando tornò a infilarsi nel letto, Calderon le passò un braccio intorno al corpo. Sapeva che avrebbe avuto gli occhi cerchiati, la mattina dopo. Nella sua culla, Alexander continuava a gridare.

 

E continuò così. I quattro ometti venivano ogni giorno e davano ad Alexander le sue lezioni. Si compiacevano per i progressi del grasso bambino. E non si lamentavano quando Alexander indulgeva nelle sue idiosincrasie, come quella di picchiarli con violenza sul naso, oppure di fare a brandelli i loro indumenti di carta. Bordent si batté una mano sul casco metallico e sorrise trionfante a Calderon:

«Cresce... Si sviluppa».

«Sì, ma... e la disciplina».

Alexander alzò la testa, interrompendo qualche suo muto intrattenimento con Quat. «La disciplina dell'homo sapiens non si applica a me, Joseph Calderon».

«Non chiamarmi Joseph Calderon. In fin dei conti, sono tuo padre».

«Una necessità biologica primitiva. Non sei sufficientemente sviluppato per fornirmi la disciplina di cui ho bisogno. Devi limitarti a proteggermi e ad assistermi».

«Il che mi riduce a un'incubatrice», commentò Calderon.

«Ma deificata», intervenne Bordent a blandirlo. «Praticamente, il Logos, il Principio d'una nuova razza».

«Mi sento più come Prometeo», disse arcigno il padre della nuova razza. «Anche lui, come compenso del suo aiuto, finì con un avvoltoio che gli mangiava il fegato».

«Imparerà molte cose da Alexander».

«Ma dice che sono incapace di capirle».

«Be', non è così?» ribatté il bambino.

«Certo. Io sono soltanto l'uccello che cova», brontolò Calderon, e sprofondò in un cupo silenzio, osservando Alexander che, sotto l'occhio tutelare di Quat, metteva insieme un congegno di vetro scintillante e pezzi metallici. Bordent esclamò all'improvviso: «Quat! Attento all'uovo!» E Finn acchiappò un ovoide bluastro un attimo prima che la mano grassoccia di Alexander potesse afferrarlo.

«Non è pericoloso», disse Quat. «Non è collegato».

«Potrebbe averlo collegato lui».

«Lo voglio!» strillò il bambino. «Dammelo».

«Non ancora, Alexander», disse Bordent, rifiutando. «Prima devi imparare il modo giusto di collegarlo. Altrimenti, potrebbe farti male».

«Io posso!»

«Non sei ancora abbastanza evoluto per equilibrare le tue capacità e le tue lacune. Più avanti, non ci sarà alcun pericolo. Penso che adesso, un po' di filosofia, Dobish... no?»

Dobish si accucciò ed entro in contatto con la mente di Alexander. Myra uscì dalla cucina, diede una rapida occhiata alla scena e si ritirò. Calderon la seguì.

«Non mi ci abituerò neppure se vivessi mille anni», dichiarò la donna, scandendo le parole. Rifilò col coltello l'orlo di una torta. «È il mio bambino soltanto quando dorme».

«Noi non vivremo mille anni», disse Calderon, «Alexander, invece, si. Vorrei tanto che avessimo una domestica».

«Ho tentato anche oggi», annuì Myra, con voce stanca. «Niente da fare. Hanno tutte un lavoro nell'industria bellica. E basta dirgli che hai un bambino, perché...»

«Non puoi far tutto da sola».

«Tu mi aiuti tutte le volte che puoi», sospirò lei. «Ma hai anche il tuo lavoro. Non può durare così».

«Mi sono chiesto: e se avessimo un altro figlio... se...»

Lo sguardo di Myra incontrò il suo, tranquillo: «Me lo sono chiesta anch'io. Ma non credo che le mutazioni siano così frequenti. Una volta in una vita. Comunque, non possiamo saperlo».

«Be', in ogni modo, adesso non ha importanza. Un bambino è più che sufficiente, per il momento».

Myra lanciò un'occhiata verso la porta. «Tutto a posto, là dentro? Dai un'occhiata. Sono preoccupata».

«Tutto a posto».

«Lo so, ma quell'uovo azzurro... Bordent ha detto che è pericoloso. L'ho sentito».

Calderon sbirciò attraverso la fessura della porta. I quattro nani erano seduti, rivolti verso Alexander, che teneva gli occhi chiusi. Ma in quell'istante si riaprirono. Il bambino lanciò un'occhiata corrucciata a Calderon.

«Resta fuori», gli intimò. «Stai interrompendo il contatto».

«Mi spiace», fece Calderon, ritirandosi. «Già, Myra. Un piccolo dittatore arrogante».

«Ma è un superuomo...» disse lei, dubbiosa.

«No, è un superbambino. La differenza è tutta qui».

«Il suo ultimo giochetto», disse Myra, indaffarata al forno, «sono gli indovinelli. O qualcosa che ci assomiglia. Mi sento così sciocca, quando mi batte. Ma lui dice che fa bene al suo ego. Compensa la sua fragilità fisica».

«Indovinelli, eh? Ne conosco qualcuno anch'io».

«Non funzioneranno con Alexander», disse Myra, con cupa certezza.

 

E infatti fu così. «Quante uova si possono togliere da un mucchio di cento uova?» fu trattato col disprezzo che si meritava. Alexander rigirò nella sua mente tutti gli indovinelli del padre, li analizzò alla ricerca di tutti i difetti semantici e di logica, e li rifiutò. Oppure diede le sue risposte, con una tale impeccabilità di ragionamento che Calderon non ebbe il coraggio di spiattellargli le risposte vere. Si ridusse a chiedergli perché un corvo fosse uguale a una scrivania, e poiché neppure il Cappellaio Matto era stato capace di rispondere al suo stesso indovinello, ascoltò, alquanto terrorizzato, una completa dissertazione di ornitologia comparata. Dopo di che, lasciò che Alexander lo punzecchiasse con battute infantili sui raggi gamma e i fotoni, accettando la cosa con filosofia. Ci sono poche cose irritanti quanto gli indovinelli di un bambino. Il suo trionfo beffardo alzava nuvole di polvere, che Calderon era costretto a mordere.

«Oh, lascia in pace tuo padre», sbottò a un certo punto Myra, entrando coi capelli in disordine. «Non vedi che sta cercando di leggere il giornale?»

«Le notizie non hanno importanza».

«Sto leggendo i fumetti», obbiettò Calderon. «Voglio vedere se Bibì e Bibò riescono a vendicarsi di capitan Cocoricò, dopo che lui li ha appesi sotto l'idrante».

«La tipica formula dell'umorismo che deriva da situazioni incongrue...» cominciò Alexander in tono saccente, ma Calderon, disgustato, si rifugiò in camera da letto, dove Myra lo raggiunse. «Allora? Cos'hanno combinato Bibì e Bibò?»

«Hai l'aspetto di una sciattona. Ti sei presa un raffreddore?»

«Non porto trucco. Alexander dice che l'odore lo fa star male».

«E allora? Lui, forse, odora di violette?»

«Oh, insomma, lui dice che gli fa male», sbuffò Myra. «So benissimo che lo fa apposta, ma...»

«Zitta! Cosa diavolo sta combinando, adesso?»

Ma Alexander voleva soltanto un pubblico. Aveva trovato un nuovo modo di produrre rumori scurrili cacciandosi le dita in bocca. C'erano, in verità, dei momenti in cui il comportamento normale del bambino era più stressante dei suoi periodi da super. Dopo un mese, tuttavia, Calderon dovette rendersi conto che il peggio non era ancora venuto. Alexander aveva progredito in campi di conoscenza che l'homo sapiens aveva lasciato inviolati, e aveva preso l'abitudine, degna di una sanguisuga, di prosciugare il cervello di suo padre di ogni frammento d'informazione che lo sventurato Calderon possedeva.

Era lo stesso con Myra. Il mondo era davvero un'ostrica, per Alexander, di cui lui era la perla. Aveva una curiosità insaziabile per ogni cosa, e l'appartamento non conosceva più nessuna intimità. Calderon prese l'abitudine di chiudere a chiave, ogni notte, la porta della camera da letto, per impedire che suo figlio vi entrasse — il lettino di Alexander era adesso in un'altra stanza — ma strilli furibondi potevano svegliarlo a tutte le ore.

Nel bel mezzo della preparazione della cena, Myra era costretta a interrompersi per spiegare ad Alexander tutti i misteri calorifici del forno. Questi imparò tutto quello che lei sapeva, poi si lanciò negli aspetti più astrusi della materia, e si fece beffe della sua ignoranza. Poi, scoprì che Calderon era un fisico, un fatto che fino a quel momento suo padre gli aveva accuratamente nascosto, e da allora gli pompò fuori tutte le informazioni, fino a ridurlo a uno straccio. Fece domande sulla geodesia e la geopolitica. Indagò sui monotremi e le monorotaie. Provava una viva curiosità per le biremi e la biologia. Ed era profondamente scettico, pronto a dubitare dell'attendibilità delle conoscenze di suo padre. «Ma», disse, «tu e Myra Calderon siete i miei contatti più immediati con l'homo sapiens, ed è pur sempre un inizio. Spegni quella sigaretta! Non mi fa bene ai polmoni».

«D'accordo», sospirò Calderon. Si alzò, in preda alla stanchezza, con la costante sensazione di trovarsi braccato da una stanza all'altra, e andò a cercare Myra. «Bordent sta per arrivare. Noi, intanto, potremmo andar fuori da qualche parte, no?»

«Splendido», lei disse. In un attimo fu allo specchio, a ravviarsi i capelli. «Ho urgente bisogno di una permanente. Se avessi il tempo...!»

«Domani mi prenderò la giornata libera e resterò a casa. Tu hai bisogno di un po' di riposo».

«Tesoro, no. Tra poco ci sono gli esami. Non puoi farlo».

Alexander gridò. Esigeva, stavolta, che sua madre cantasse per lui. Era curioso di conoscere l'estensione della gamma tonale nell'homo sapiens e dei possibili effetti emotivi e soporifici delle ninnenanne. Calderon si preparò da bere, si sedette in cucina e fumò, e rifletté sul destino glorioso di suo figlio. Quando Myra smise di cantare, aspettò le proteste isteriche di Alexander, ma non udì alcun suono, fino a quando una Myra lievemente isterica non entrò di corsa in cucina, tremante e con gli occhi sbarrati.

«Joe!» Cadde tra le braccia di Calderon. «Presto, dammi qualcosa da bere, o... o stringimi forte, fai qualcosa, quel che vuoi».

«Cosa succede?» Le cacciò la bottiglia nelle mani, andò alla porta e guardò nel soggiorno.

«Alexander? È tranquillo. Sta mangiando un candito».

Myra lasciò perdere il bicchiere. Il collo della bottiglia sbatté contro i suoi denti, e trangugiò due rapide sorsate. «Guardami... Semplicemente, guardami. Sono sconvolta».

«Cos'è successo?»

«Oh, niente. Niente del tutto. Alexander è diventato un esperto di magia nera, tutto qui». Si lasciò cadere su lina sedia e si passò una mano sulla fronte. «Sai cosa ha fatto, un momento fa, quel genio di nostro figlio?»

«Ti ha morso», azzardò Calderon, in tono più che convinto.

«Peggio, molto peggio. Mi ha chiesto un candito. Gli ho detto che in casa non ce n'era neppure uno. Mi ha detto di scender giù in drogheria a comperarne. Gli ho detto che prima avrei dovuto vestirmi, ed ero così stanca...»

«Perché non mi hai chiamato? Ci sarei andato io».

«Non me ne ha lasciato la possibilità. Prima che potessi dire "ah", quel mago Merlino neonato ha agitato una bacchetta fatata o qualcosa di simile e io... io ero giù, al negozio. Al banco dei canditi».

Calderon ammiccò. «Amnesia indotta?»

«Non c'è stato nessun intervallo di tempo. Pfitt... ed ero laggiù, con questo straccio di vestito addosso, neanche l'ombra di trucco, e i capelli tutti spettinati. C'era anche la signora Busherman che stava comperando un pollo... quella gatta che abita di fronte. È stata gentilissima, mi ha detto che dovrei aver più cura di me, badare un po' di più al mio aspetto... Miàooo», terminò Myra, inferocita.

«Buon Dio».

«Teletrasporto. Ecco come lo chiama Alexander. Qualcosa di nuovo, che ha appena imparato. Non ho alcuna intenzione di sopportarlo. Non sono una bambola di pezza, in fin dei conti», concluse, gridando.

Calderon entrò in soggiorno e squadrò suo figlio. La bocca di Alexander era un impasto di zucchero e cioccolata.

«Ascolta, sapientone», l'apostrofò Calderon, «lascia in pace tua madre, capito?»

«Non le ho fatto del male», gli fece notare l'infante prodigio, con voce impastata. «Ho soltanto usato il metodo più sbrigativo».

«Be', cerca di essere meno sbrigativo, d'ora in poi. Dove hai imparato quel trucco, ad ogni modo?»

«Il teletrasporto? Me l'ha insegnato Quant, ieri sera. Lui non può farlo, ma io sono un X libero super, perciò posso. Non ho ancora imparato a servirmene alla perfezione. Ad esempio, se avessi cercato di teletrasportare Myra Calderon fino al New Jersey, ad esempio, avrei potuto mollarla dentro l'Hudson per sbaglio».

Calderon imprecò energicamente a bassa voce. Alexander gli chiese: «È un derivato anglosassone?»

«Oh, accidenti, non devi preoccuparti di questo. Bada invece a tutti quei dolci che mangi. Starai male. E hai fatto star male tua madre. E stai nauseando me».

«Vattene», gl'intimò Alexander. «Voglio concentrarmi sul sapore».

«No. Ti ho detto che starai male. Zucchero e cioccolata, è troppo per te. Dammi subito quel dolce. Ne hai già mangiato troppo». Calderon allungò la mano verso suo figlio. Alexander scomparve. Myra, in cucina, urlò.

Calderon gemette, scoraggiato, e si voltò. Come si era aspettato, Alexander era li, in cucina, appollaiato sopra il forno, e continuava a rimpinzarsi come un maiale. Myra si era ancora attaccata, piena d'angoscia, alla bottiglia di whisky.

«Oh, che roba», commentò Calderon. «Un bambino che si teletrasporta per tutto l'appartamento, tu che sgobbi in cucina, ed io che sto per avere un collasso nervoso». Cominciò a ridere. «Va bene, Alexander, tienti pure il candito. So quando devo battere in ritirata strategica».

«Myra Calderon», intimò Alexander, «voglio tornare nell'altra stanza».

«Perché non fai un bel volo?» chiese Calderon, beffardo. «Ecco, ti ci porto io».

«No, non tu. Lei. Ha un ritmo migliore, quando cammina».

«Quando barcollo, vuoi dire», ribatté Myra. Ma, obbediente, mise giù la bottiglia, si alz,ò e prese Alexander tra le braccia. Uscì dalla cucina. Calderon non fu troppo sorpreso, quando un attimo dopo la sentì gridare. Quand'ebbe raggiunto di corsa il resto della sua felice famiglia, in soggiorno, Myra era seduta sul pavimento, intenta a sfregarsi un braccio, mordendosi un labbro. Alexander stava ridendo.

«E adesso, cos'ha combinato?»

«Mi ha... mi ha dato la scossa», balbettò Myra, con una voce da bambina. «È come un'anguilla elettrica. E l'ha fatto apposta, per giunta. Oh, Alexander, vuoi smetterla di ridere?»

«Sei caduta», gridò il bambino, esultante. «Hai gridato e sei caduta».

Calderon guardò Myra, e la sua bocca si strinse. «L'hai fatto apposta?» chiese a suo figlio.

«Sì. È caduta giù. Aveva un aspetto buffissimo».

«Tu avrai un aspetto ancora più buffo tra un minuto. X libero super o no che tu sia, quella che ti serve è una buona sculacciata».

«Joe...» intervenne Myra.

«Oh, lasciami fare. Deve imparare a rispettare i diritti degli altri».

«Io sono un homo superior», dichiarò Alexander, con l'aria di qualcuno che vuol troncare una discussione.

«Ora ti acchiapperò, mio caro homo superior», annunciò Calderon. Fece per agguantare suo figlio, e un'avvampante stilettata di energia nervosa gli esplose attraverso le sinapsi; balzò indietro, ignominiosamente, e andò a sbattere contro il muro, prendendo una forte botta alla testa. Alexander scoppiò a ridere come un idiota.

«È caduto anche lui!» esultò. «Quanto sei divertente, Calderon».

«Joe», disse Myra, «Joe, sei ferito?»

Calderon replicò, acido, che quasi certamente sarebbe sopravvissuto. Anche se sarebbe stato opportuno, aggiunse, preparare qualche stecca e una scorta di plasma. «Nel caso in cui cominci a interessarsi alla vivisezione».

Myra fissò Alexander turbata e pensierosa. «Stai scherzando, spero».

«Lo spero anch'io».

«Oh... ecco Bordent. Parliamogli».

Calderon andò ad aprire. I quattro ometti entrarono con passo solenne. Non persero tempo. Si radunarono intorno ad Alexander, tirarono fuori nuovi arnesi dai recessi dei loro indumenti di carta, e si misero al lavoro.

Il bambino annunciò: «Ho teletrasportato lei per duecentocinquanta metri!»

«Così lontano?» esclamò Quat. «Ti sei stancato?»

«Neanche un po'».

Calderon tirò da parte Bordent: «Voglio parlarle. Credo che Alexander abbia bisogno di un'energica sculacciata».

«Per Vorastro!» replicò il nano, vivamente scosso. «Ma è Alexander! È un X libero super!»

«Non ancora. È ancora un bambino».

«Un superbambino. No, no, Joseph Calderon. Devo ripeterle una volta ancora che le misure disciplinari possono essere applicate soltanto da autorità sufficientemente intelligenti».

«E voi non...»

«Oh, non ancora», l'interruppe Bordent. «Non vogliamo affaticarlo troppo. C'è un limite anche ai poteri di un supercervello, specialmente nel periodo formativo. Ha già anche troppo da fare, e non ci sarà bisogno, ancora per un po', che il suo atteggiamento nei confronti dei contatti sociali si maturi».

Myra intervenne: «Non sono d'accordo con lei su questo. Come tutti i bambini, è antisociale. Potrà anche avere poteri superumani, ma è subumano per quanto riguarda l'equilibrio mentale ed emotivo».

«Già», fu d'accordo Calderon. «Questa faccenda di darci la scossa elettrica...»

«Sta soltanto giocando», replicò Bordent.

«E il teletrasporto? Supponga che mi teletrasporti in Times Square mentre sto facendo la doccia?»

«È soltanto un gioco, per lui. È soltanto un bambino».

«E noi?»

«Voi possedete la caratteristica ereditaria della tolleranza, tipica dei genitori», puntualizzò Bordent. «Come vi ho già detto, Alexander e la sua razza sono il motivo principale per cui questa tolleranza si è sviluppata. L'homo sapiens non ne ha molto bisogno. Voglio dire, esiste un ampio margine fra il normale livello di tolleranza e la peggior provocazione da parte di un bambino normale. Questi, può mettere alla prova i suoi genitori solo per brevi periodi, e alquanto distanziati fra loro, non più. La provocazione, in questi casi, è troppo piccola per richiedere le enormi riserve di tolleranza di cui dispongono i suoi genitori. Ma col tipo X libero, la faccenda cambia».

«C'è un limite anche alla tolleranza», ribatté Calderon. «Mi stavo chiedendo se non potremmo metterlo in un asilo-nido».

Bordent scosse la testa rivestita di lucido metallo. «Ha bisogno di voi».

«Ma non potreste», insisté Myra, «non potreste inculcargli almeno un poco, non tanto, di disciplina?»

«Oh, non è necessario. La sua mente è ancora immatura, e deve concentrarsi su cose più importanti. Lo tollererete».

«È come se non fosse più nostro figlio», mormorò lei. «Non è più Alexander».

«Ma lo è, questo è il punto. È Alexander!»

«Senta, è normale che una madre desideri stringere a sé il suo bambino. Ma come può farlo, se si aspetta che lui la scaraventi attraverso la stanza?»

Calderon stava riflettendo. «Imparerà altri... altri superpoteri, man mano che progredisce?»

«Ma certo. Sì, è naturale».

«È una minaccia permanente alle nostre vite. Io continuo a insistere che gli serve un po' di disciplina. La prossima volta mi metterò i guanti di gomma».

«Non serviranno», replicò Bordent, accigliandosi. «Inoltre, devo insistere... no, Joseph Calderon, non servirebbe. Lei non deve interferire. Lei non è in grado di dargli il tipo giusto di disciplina... che in tutti i casi non gli serve».

«Soltanto una sculacciata», ribadì Calderon, tutt'altro che remissivo. «Oh, non per vendetta. Soltanto per mostrargli che deve rispettare i diritti degli altri».

«Imparerà a rispettare i diritti degli altri X liberi super. Lei non deve tentare niente di simile. Una sculacciata... anche se lei riuscisse a dargliela, il che è tutt'altro che probabile... potrebbe deformarlo psicologicamente. Siamo noi i suoi insegnanti, i suoi tutori. Noi dobbiamo proteggerlo,mi capisce?»

«Penso di sì», rispose Calderon, lentamente. «È una minaccia?»

«Voi siete i genitori di Alexander, ma è Alexander che conta. Se mi costringerete, dovrò applicare delle misure disciplinari... su di voi».

«Oh, lasci perdere», sospirò Myra. «Joe, usciamo a fare una passeggiata nel parco, mentre Bordent è qui».

«Tornate fra due ore», li salutò l'ometto. «Arrivederci».

 

Man mano che il tempo passava, Calderon non riusciva più a decidere se l'irritassero di più le frasi idiote di Alexander, o i suoi periodi di più acuta intelligenza. Il bambino prodigio aveva appreso nuovi poteri; l'aspetto peggiore di tutta la faccenda era che Calderon non sapeva più che cosa aspettarsi, e il momento in cui gli sarebbe capitato qualche nuovo, sconvolgente scherzo. Come il giorno in cui gli si rovesciò addosso, mentre era a letto, un mucchio di appiccicose caramelle al miele teletrasportate dalla vicina drogheria. Ad Alexander la cosa parve molto divertente. Rise a crepapelle.

E quando Calderon si rifiutò drasticamente di scender giù a comperargli dei canditi alla cioccolata perché non aveva soldi — «Non cercare di teletrasportarmi. Sono al verde». — Alexander aveva utilizzato la sua energia mentale per distorcere in modo sconvolgente il campo gravitazionale. Calderon si ritrovò sospeso, a testa in giù, col corpo sussultante, mentre una cascata di spiccioli gli usciva dalle tasche. Andò a comperare i canditi.

L'umorismo è qualcosa che si sviluppa avendo robuste radici nella crudeltà. Più una mente è primitiva, meno è selettiva nelle sue preferenze. Con ogni probabilità un cannibale si diverte immensamente a guardare il dibattersi della sua vittima in un pentolone bollente. Un uomo scivola su una buccia di banana e si rompe la spina dorsale: guardandolo, un adulto smette subito di ridere, un bambino no. E un ego civilizzato trova che l'imbarazzo è doloroso almeno quanto il dolore fisico. Un neonato, un bambino, un idiota, sono invece incapaci di solidarizzare col prossimo. Non sanno identificarsi con un altro individuo. Sono deplorevolmente solipsisti. Le loro regole sono arbitrarie, e tutta l'appiccicosa immondizia sparsa per la stanza non divertì affatto né Myra né Calderon.

C'era un piccolo estraneo, in casa. Nessuno ne era contento. Fuorché Alexander. Lui si divertiva un mondo.

«Niente intimità», dichiarò Calderon. «Si materializza dappertutto, e a tutte le ore. Tesoro, vorrei che tu andassi da un dottore».

«Cosa mi consiglierebbe?» Lei ribatté. «Riposo. Ti rendi conto che sono passati due mesi da quando Bordent ha preso la faccenda sotto controllo?»

«E abbiamo fatto splendidi progressi», disse Bordent, avvicinandosi a loro. Quat era in collegamento mentale con Alexander sul tappeto, mentre gli altri due nani stavano montando un nuovo congegno. «O meglio, è Alexander che ha fatto straordinari progressi».

«Abbiamo urgente bisogno di riposo», grugnì Calderon. «Se perderò il mio lavoro, chi fornirà il sostentamento a quel vostro genio?»

Myra lanciò una rapida occhiata a suo marito, quando udì l'aggettivo possessivo da lui usato.

Bordent si mostrò preoccupato. «È in difficoltà finanziarie?»

«Il decano mi ha parlato un paio di volte. Non riesco più a controllare le mie classi. Sono troppo irritabile».

«Non ha bisogno di sprecare la sua tolleranza con quegli studenti. In quanto al denaro, possiamo rifornirla noi. Farò in modo che ottenga un po' di valuta negoziabile».

«Ma io voglio lavorare! Mi piace il mio lavoro.

«Alexander è il suo lavoro».

«Ho bisogno di una domestica», disse Myra, con aria desolata. «Non potete fabbricarmi un robot o qualcosa di simile? Alexander ha spaventato tutte le cameriere che sono riuscita a trovare. Non vogliono restare neppure un giorno in questo manicomio».

«Un'intelligenza meccanica avrebbe un cattivo effetto su Alexander», dichiarò Bordent. «No».

«Vorrei che potessimo ricevere qualche ospite, di tanto in tanto. Oppure andar fuori a trovare qualcuno. O anche soltanto restar soli», sospirò Myra.

«Un giorno Alexander sarà maturo, e voi raccoglierete la vostra ricompensa. I genitori di Alexander. Vi ho mai detto che abbiamo i vostri ritratti nel Grande Museo delle Polverose Antichità?»

«Devono avere un aspetto orribile», commentò Calderon. «L'aspetto che noi abbiamo adesso».

«Siate pazienti. Considerate il grande destino di vostro figlio».

«Lo faccio spesso. Ma a volte la cosa è parecchio stancante. Il che, in verità, è un grazioso eufemismo».

«Ed è proprio qui che entra in gioco la tolleranza», dichiarò Bordent. «La natura ha fatto ottimamente i suoi piani per la nuova razza».

«Mmmm...»

«Adesso stiamo lavorando alle astrazioni esadimensionali. Tutto procede meravigliosamente bene».

«Già», commentò Calderon. E se ne andò via brontolando, per raggiungere Myra in cucina.

Alexander lavorava con facilità ai suoi congegni. Le sue dita grassocce erano sempre più robuste e sicure. Aveva ancora una viva quanto proibita passione per l'ovoide azzurro, ma sotto l'occhio vigile di Bordent poteva usarlo soltanto negli strettissimi limiti impostigli dai suoi insegnanti. Quando la lezione fu finita, Quat scelse alcuni degli oggetti e li chiuse a chiave in una credenza, com'era sua abitudine. Gli altri, li lasciò sul tappeto, per consentire ad Alexander di esercitarvi la sua ingegnosità.

«Si sta sviluppando», disse Bordent. «Oggi abbiamo fatto un grande passo avanti».

Myra e Calderon arrivarono in tempo per udire questa frase. «Cosa c'è?» s'informò Calderon.

«La rimozione psichica di un blocco. Alexander non avrà più bisogno di dormire».

«Cosa?» balbettò Myra.

«Non avrà più bisogno di dormire. Si tratta di un'abitudine artificiale. La superrazza non ne ha bisogno».

«Non dormirà più, eh?» chiese Calderon. Era impallidito un po'.

«Proprio così. Adesso si svilupperà in fretta. Il doppio più in fretta».

 

Alle 3 e 30 del mattino Calderon e Myra giacevano a letto, completamente svegli, e guardavano attraverso la porta aperta Alexander che giocava nel vivido bagliore delle luci accese. Visto con grande chiarezza, in quel palcoscenico illuminato, non sembrava più lui. La differenza era impercettibile, ma c'era. Sotto la peluria dorata, la sua testa aveva lievemente cambiato forma, e nei suoi lineamenti tondi vi era un'espressione lucida e decisa. Non era un aspetto attraente. Non apparteneva a quel corpo. Faceva assomigliare Alexander più a un vecchio depravato che a un superbambino. Tutta la crudeltà e l'egoismo di un bambino — caratteristiche del tutto normali, e segni di buona salute, in un neonato in via di sviluppo — guizzavano sul viso di Alexander mentre giocava, assorto, con dei solidi di cristallo incolore, che incastrava l'uno nell'altro come una sorta di rompicapo cinese. Fissare quel volto era sconvolgente.

Calderon senti Myra che sospirava accanto a lui.

«Non è più il nostro Alexander», disse la donna. «Neanche un po'».

Alexander alzò gli occhi, e il suo volto all'improvviso divenne scarlatto. La paradossale espressione, un misto di infantilità e di perversa degenerazione, scomparve, quando spalancò la bocca e urlò di rabbia, scagliando i blocchi in tutte le direzioni. Calderon ne vide uno rotolare attraverso la porta aperta della camera da letto, per fermarsi sul tappeto, rovesciando fuori una cascata di blocchi sempre più piccoli, che ruzzolarono scintillanti verso di lui. Le urla di Alexander riempirono l'appartamento. Un attimo dopo, le imposte delle finestre cominciarono a sbattere sul cortile, e il telefono squillò. Calderon allungò una mano, sospirando.

Quando riappese, fissò Myra e fece una smorfia. Gridando, per farsi udire sopra lo sbraitare di Alexander, annunciò: «Bene. Ci hanno sfrattato».

Myra commentò: «Oh, oh».

«Questo è tutto».

Rimasero silenziosi per qualche istante. Poi Calderon disse: «Ancora diciannove anni. Credo che dobbiamo aspettarci più o meno questo periodo di tempo. Hanno detto che sarebbe maturato a vent'anni, non è vero?»

«Sarà orfano molto prima», gemette Myra. «Oh, la mia testa! Credo di essermi presa un raffreddore quando ci ha teletrasportati sopra il tetto, prima di cena. Joe, credi che noi siamo i primi genitori che hanno... che sono stati intrappolati così?»

«Cosa vuoi dire?»

«C'è mai stato un altro superbambino prima di Alexander? Sembra un grosso spreco di tolleranza, se siamo noi i primi ad averne bisogno».

«Ci farebbe comodo averne parecchia di più. Un mucchio, un'intera montagna». Non disse altro per un po', mentre se ne restava lì disteso a riflettere, cercando di non ascoltare i ritmici ululati del suo superfiglio. Tolleranza. Ogni genitore aveva bisogno di possederne parecchia. Ogni bambino, di tanto in tanto, era intollerabile. Certamente, la razza aveva avuto bisogno dell'amore dei genitori in dosi enormi, per consentire ai bambini appena nati di sopravvivere. Ma nessun genitore, prima d'ora, era stato messo alla prova in una maniera così tremenda, fino al limite estremo della tolleranza. Nessun genitore, prima d'ora, aveva avuto la necessità di esercitare la propria tolleranza per vent'anni di seguito, giorno e notte, spinta all'ultimissimo grado. L'amore dei genitori è una grande emozione, che molto sopporta, ma...

«Mi chiedo», disse, sempre soprappensiero, «mi chiedo se davvero noi siamo i primi».

I pensieri di Myra avevano cambiato direzione. «Suppongo che sia come le tonsille e l'appendice», mormorò. «Sono sopravvissute al loro impiego, ma sopravvivono ancora. Questa tolleranza è un vestigio all'incontrano: ha resistito tutti questi millenni perché stava aspettando Alexander».

«Forse. Mi chiedo... tuttavia... se mai ci fosse stato un altro Alexander prima d'ora, ne avremmo certo sentito parlare, no? E allora...»

Myra si sollevò su un gomito e fissò suo marito. «Lo credi proprio?» gli bisbigliò. «Io non ne sono così sicura. Penso che possa essere già accaduto altre volte».

D'improvviso, Alexander si calmò. L'appartamento, per un attimo, fu avvolto dal silenzio. Poi una voce familiare, senza parole, si fece udire, simultaneamente, nel cervello di entrambi.

«Datemi un altro po' di latte. E lo voglio caldo, non bollente».

Joe e Myra si guardarono, incapaci di spiccicar parola. Myra sospirò e scostò le coperte dalla sua parte. «Vado io, stavolta», disse. «Qualcosa di nuovo, eh? Io...»

«Non perdete tempo», insisté la voce senza parole. Myra saltò giù, cacciando un piccolo strillo. L'elettricità crepitò, ben udibile, attraverso la stanza, e dalla porta aperta giunse la risata schiamazzante di Alexander.

«Suppongo che adesso sia civilizzato come una scimmia ben ammaestrata», osservò Joe, uscendo a sua volta dal letto. «Vado io. Tu rimettiti sotto. Un anno ancora, e potrà aver raggiunto il livello di un boscimano. Dopo, se saremo ancora vivi, avremo il piacere di vivere con un cannibale dotato di superpoteri. Alla fine, potrebbe arrivare al livello del più grande dei buffoni di corte. Questo sì che sarà interessante». Uscì dalla stanza, borbottando tra sé.

Dieci minuti più tardi, tornando a letto, Joe trovò Myra che si stringeva le ginocchia tra le braccia e fissava il vuoto.

«Noi non siamo i primi, Joe», disse. «Ci ho riflettuto. Sono convinta che non lo siamo».

«Ma non abbiamo mai sentito parlare di superuomini che si siano sviluppati...»

La donna girò la testa e gli rivolse una lunga occhiata pensosa. «No», annuì.

Rimasero in silenzio. Poi: «Sì, capisco cosa intendi dire», annuì Joe.

Qualcosa si schiantò nel soggiorno. Alexander ridacchiò, e il rumore del legno che si scheggiava risuonò forte nella notte. Un'altra finestra sbatté, in qualche parte sul cortile.

«C'è un limite di rottura», proseguì Myra, con calma. «Deve esserci»,

«Saturazione», mormorò Joe. «La saturazione della tolleranza, o qualcosa di simile. Potrebbe essere accaduto».

Alexander comparve alla loro vista, ruzzolando. Stringeva qualcosa di azzurro. Si sedette e cominciò a trastullarsi con dei fili lucenti. Myra si drizzò di colpo.

«Joe, ha l'uovo azzurro! Deve aver sfondato la credenza».

Calderon disse: «Ma Quat gli aveva raccomandato...»

«È pericoloso!»

Alexander li fissò, sogghignando, e piegò i fili, formando una reticella delle dimensioni dell'uovo.

Calderon era già fuori del letto, a metà strada verso la porta. Ma si fermò prima di raggiungerla. «Sai», disse lentamente, «potrebbe farsi male con quel coso».

«Dovremmo toglierglielo», ammise Myra, sollevandosi dal letto con stanca riluttanza.

«Ma guardalo», la sollecitò Joe. «Guardalo bene».

Alexander stava maneggiando con competenza i fili, con le mani che guizzavano alla vista per scomparire di nuovo mentre bilanciava il tesseratto sotto la gabbia che reggeva l'uovo. Quella curiosa espressione di consapevolezza dava al suo viso grassoccio l'espressione degenerata della senilità, che tanto bene ormai conoscevano.

«Tutto questo continuerà, e continuerà ancora, sai», mormorò Calderon. «Domani assomiglierà ancor meno a se stesso di oggi. La settimana prossima... il mese prossimo... cosa sarà tra un anno?»

«Lo so». La voce di Myra era una fievole eco. «Tuttavia, suppongo che dovremmo...»

La sua voce si affievolì e si spense. Myra era immobile, a piedi nudi, accanto a suo marito, e guardava.

«Suppongo che il congegno sia completato», aggiunse Myra, «quando avrà collegato quell'ultimo filo. Dovremmo strapparglielo via di mano».

«Credi che ci riusciremmo?»

«Dovremmo tentare».

Si guardarono. Calderon disse: «Sembra un uovo di Pasqua. Non ho mai sentito parlare di un uovo di Pasqua che abbia fatto del male a qualcuno».

«Suppongo che gli stiamo facendo un favore», sospirò Myra. «Un bambino che si scotta, ha poi paura del fuoco. Se si brucia con un fiammifero, poi sta alla larga dai fiammiferi».

Rimasero in silenzio a guardare.

Alexander impiegò altri tre minuti per completare il suo progetto, di qualunque cosa si trattasse. I risultati furono di un'efficacia sbalorditiva. Vi fu un lampo di luce bianca, un assordante crepitio dell'aria, e Alexander svanì in una vampa abbacinante, lasciandosi alle spalle un sottile odore di bruciato.

Quando i due genitori poterono vedere di nuovo, ammiccarono incerti verso lo spazio vuoto. «Teletrasporto?» bisbigliò Myra, stordita.

«Ora controllo». Calderon attraversò la stanza e si fermò a fissare la macchia umida sul tappeto ai suoi piedi, con le scarpette di Alexander in mezzo. Disse: «No, niente teletrasporto». Poi esalò un lungo sospiro. «Se n'è andato sul serio. E così, non è mai cresciuto per spedire Bordent a ritroso nel tempo a farci visita. Non è mai accaduto».

«Non siamo i primi», disse Myra, con voce incerta, instupidita.

«C'è un punto di rottura, sì. Quanto mi dispiace per i primi genitori che non lo raggiungeranno!»

D'improvviso Myra si girò, ma non così all'improvviso da impedirgli di accorgersi che stava piangendo. Esitò, fissando la porta. Pensò che avrebbe fatto meglio a non seguirla, non ancora.

 

Killdozer!

Killdozer!

di Theodore Sturgeon

Astounding, novembre

 

Ted Sturgeon ricomparve sulle pagine di Astounding dopo un'assenza di parecchi anni, con questo appassionante capolavoro. Le storie d'«invasati» di solito sono dominio del fantastico, ma poiché in questo caso l'invasore è una intelligenza aliena, «Killdozer!» si riqualifica come fantascienza. Il tema dell'uomo contro la macchina è antico, nella fantascienza, ma raramente è stato trattato con l'abilità che Sturgeon dispiega in questa storia. Sturgeon, nella sua multiforme carriera, fu un guidatore di macchine pesanti e sapeva ciò che scriveva. La storia fu filmata (una produzione televisiva) nel 1974, ma non raggiunse affatto la tensione drammatica dell'originale.

 

(La seconda guerra mondiale ebbe come effetto un crollo quantitativo nella produzione d'un certo numero fra i maggiori autori di fantascienza. Gli anni dal 1942 al 1945, ad esempio, videro Robert Heinlein, Sprague da Camp e il sottoscritto al lavoro nello stesso piano dello stesso edificio della Marina statunitense, a Filadelfia. Ciò volle dire che Bob e Sprague non scrissero praticamente nulla in tre anni - anche se io riuscii a trovare dei ritagli liberi in cui continuare la mia serie di «Foundation» e quella sui robot positronici. Ted Sturgeon era un altro di quelli che avevano dovuto abbandonare - e tutto ciò fece quasi impazzire il povero John Campbell, come potete ben immaginare. Tuttavia, quando Ted tornò, lo fece col suo miglior racconto di fantascienza ortodossa, quello che state, appunto, per leggere. Così, forse, tutto fu per il meglio. I.A.)

 

Prima della razza ci fu il diluvio, e prima del diluvio un'altra razza, la cui natura non è dato all'umanità comprendere. Non extraterrestre, non aliena, in realtà, poiché questo era il loro mondo e la loro casa.

C'era stata una guerra fra questa razza, che era una grande razza, e un'altra. L'altra era davvero aliena, qualcosa di senziente, a forma di nube, un coacervo intelligente fatto di puri sciami elettronici. Si era generata all'interno di macchine possenti a causa d'un qualche incidente, causato da una scienza antica, complessa e incomprensibile a noi, aborigeni d'oggi. E le macchine, da servi del popolo, divennero i padroni del popolo, e grandi e spietate furono le battaglie che ne seguirono. Le creature elettroniche avevano il potere di alterare i delicati equilibri della struttura atomica, e il metallo era il loro ambiente vitale, che permeavano e usavano per i loro fini. Ogni arma che l'antico popolo riuscì a mettere a punto fu invasa e rivolta contro di esso, fino a quando i pochi sopravvissuti di quella grande civiltà non trovarono una difesa...

Un isolante. L'ultimo, definitivo prodotto, o sottoprodotto, d'ogni ricerca nel campo dell'energia: il neutronio.

Nel loro rifugio segreto, essi misero a punto un'arma. Cosa fosse, non lo sapremo mai, e la nostra razza vivrà oppure finiremo per saperlo, e la nostra razza perirà, come perì la loro. Poiché, per distruggere il nemico, ne persero il controllo, e la smisurata potenza dell'arma li distrusse insieme ad essa, e così pure le loro città, e le macchine invasate dalle creature elettroniche. Il suolo, le rocce stesse si dissolsero in fiamme, la crosta del pianeta sì raggrinzì e tremò e l'oceano ribollì. Niente sfuggì, niente che noi conosciamo come vita, e niente della pseudovita che si era evoluta all'interno dei misteriosi, incomprensibili campi di forza delle macchine. Niente, salvo un singolo, coriaceo mutante.

Era un mutante, e ironicamente, l'unico che avrebbe potuto essere ucciso dalle prime, più semplici, inefficaci misure adottate contro la sua specie... ma era passato il tempo di questi semplici espedienti. Era un campo di elettroni strutturato così da possedere intelligenza, mobilità, volontà di distruggere, e poco altro. Stordito dall'olocausto, era andato alla deriva per l'intero globo ribollente, e in un attimo di tregua tra un'eruzione e l'altra delle tremende forze impazzite sulla Terra, era affondato, esausto e quasi privo di coscienza, fino al suolo fumante. Qui, aveva trovato un rifugio... un rifugio costruito dai suoi nemici morti. Un involucro di neutronio. Trovò un pertugio e vi aleggiò dentro, e qui la sua consapevolezza discese al minimo livello. E lì giacque mentre il neutronio, col suo strano, costante fluire, il suo interminabile lottare per raggiungere il perfetto equilibrio, si protendeva e finiva col chiudere del tutto l'apertura. E poi, negli interminabili eoni che seguirono, l'involucro fu sballottato come una bolla grigia sulla superficie vorticante del globo, poiché nessuna sostanza della Terra ne accettava il contatto, o si combinava con esso.

Le epoche venivano e passavano, le interreazioni chimiche attuavano le loro misteriose funzioni, e ancora una volta vi furono vita ed evoluzione. E una tribù trovò la massa di neutronio, che non è una sostanza ma energia stabilizzata, e furono colti da un reverenziale timore dinanzi alla sua aura d'indescrivibile gelo. La venerarono, costruirono un tempio intorno adesso, e compirono sacrifici propiziatori.

E il ghiaccio e il fuoco e i mari andarono e venirono, la terra si alzò e si abbassò, man mano gli anni passavano, fino a quando il tempio in rovina si trovò sopra una collinetta, e la collinetta divenne un'isola. Numerose generazioni d'isolani vennero, edificarono e morirono. E le razze via via dimenticarono. Così, oggi, in un punto del Pacifico a occidente dell'arcipelago delle isole Revilla Gigedo, c'era un'isola disabitata. E un giorno...

 

Chub Norton e Tom Jaeger rimasero a guardare lo Sprite,il grosso rimorchiatore d'alto mare, e le tre chiatte che rimpicciolivano sopra la piatta distesa marina. Il grosso rimorchiatore e le chiatte parvero sfocarsi, più che allontanarsi. Chub sputò agilmente un grumo di saliva dallo stesso angolo in cui aveva infilato il sigaro.

«Ecco, per tre settimane siamo a posto. Come ci si sente a far da cavie?»

«Ce la faremo». Gli occhi di Tom erano circondati da una fitta rete di piccole rughe. Era di tutta la testa più alto di Chub, e alquanto massiccio di corporatura. Non troppo coriaceo, ma davvero in gamba come organizzatore. Sceglierlo come caposquadra era stato saggio, giacché era competente e imponeva rispetto. La teoria che stavano sperimentando nella costruzione degli aeroporti gli interessava moltissimo, soprattutto perché qui non c'erano funzionari rompiscatole, né ispettori governativi, non vi stavano addosso col cronometro per misurare le ore lavorate, e non c'erano rapporti da stilare. Il governo aveva accordato alla compagnia una concessione temporanea, e l'idea era in sostanza quella di applicare le tecniche della catena di montaggio all'organizzazione e alla realizzazione del progetto. C'erano sei operatori, due meccanici, e il miglior equipaggiamento che si poteva comperare con un milione di dollari. L'opera, una volta in via di completamento, e dopo una verifica che l'avesse trovata conforme alle prescrizioni governative, sarebbe stata omologata. La tecnica costruttiva che si voleva applicare era destinata a ovviare al problema dei lavativi e a quello dei furti, da un lato, e dall'altro a quello della cronica mancanza di mano d'opera addestrata.

«Quando arriverà la squadra per il manto bituminoso e le rifiniture, saremo pronti», dichiarò Tom.

Si voltò a scrutare l'isola col suo sguardo sperimentato da operatore, la vide com'era, e i vari stadi attraverso i quali sarebbe passata, e l'aspetto che avrebbe assunto quando avessero finito, con milleduecento metri di pista ben drenata, terrapieni ben costipati, quattro acri di parcheggio, la pista di rullaggio e la strada di accesso. Valutò la quantità di materiale che sarebbe stata scavata e sollevata ogni volta dall'escavatore, man mano demoliva quel contrafforte di marna. Studiò le rovine lassù in cima, che avrebbero fornito il pietrisco da trasportare giù, attraverso il pianoro salato, fino alla piccola palude sul lato opposto, dove sarebbe stato riversato e ben pressato fino al completo prosciugamento.

«Abbiamo il tempo di portare l'escavatore lassù, prima che faccia buio». S'incamminarono lungo la spiaggia verso un gradone naturale di roccia dove c'era il macchinario, circondato da numerose casse e bidoni, con ogni tipo di rifornimento. I tre trattori ticchettavano sommessi, i Diesel a due cicli ridacchiavano attraverso le marmitte, e la grossa D-7 scandiva, con regolarità da metronomi, il battito del compressore a ogni placida rotazione. I camion erano allineati e silenziosi, poiché non avrebbero cominciato a lavorare finché l'escavatore non fosse stato pronto a riempirli. Parevano un'interpretazione meccanica dello «Spingimitìrami» del dottor Doolittle, il fantastico animale a due teste. Avevano due grandi ruote motrici, e due più piccole, direzionali. Il motore e il seggiolino del conducente si trovavano fianco a fianco sopra le ruote anteriori, le più piccole; ma il conducente sedeva rivolto verso il cassone, fra le due grandi ruote posteriori, esattamente all'incontrario di come si sarebbe seduto in un normale autocarro con cassone ribaltabile. Perciò, per andare dall'escavatore alla zona di scarico, l'operatore guidava all'indietro, guardandosi alle spalle, mentre per tornare all'escavatore, il guidatore viaggiava in avanti, ma il camion faceva marcia indietro — un bello scherzo, procedere così per quattordici ore al giorno! L'escavatore sembrava starsene accovacciato in mezzo a tutte le altre macchine, con la sua grande massa che incombeva su di esse, il braccio abbassato e il suo mento di ferro al suolo, come un grande dinosauro stanco.

Rivera, il meccanico portoricano, alzò gli occhi sogghignando, quando Tom e Chub si avvicinarono, e si ficcò una chiave inglese per valvole nella tasca superiore della tuta.

«Questa dice», li informò Rivera, e i denti bianchi balenarono in mezzo alla macchia di grasso che gli copriva la bocca, «che non vuole che il terriccio le graffi la pittura». Mollò un calcio col tacco alla grande lama della D-7.

Tom gli restituì il sogghigno... sempre una cosa che sorprendeva, in quel volto serio.

«Di' a quella D-7 che sgobberà parecchio, e la sua lama perderà un bel po' di filo, insieme a buona parte della pittura, prima che abbiamo finito. Monta in sella, Goony. Fai una rampa da quelle rocce fino al pianoro, laggiù, e poi affetta un po' di gobbe fino al contrafforte lassù. Voglio portar su l'escavatore».

Il portoricano era sul seggiolino prima ancora che Tom avesse finito di parlare, e con un ruggito la D-7 ruotò su se stessa, arretrando sul lato interno del gradone, poi abbassò la lama e ripartì in avanti: la marna sabbiosa si arricciò, sollevandosi davanti alla lama e poi scorrendo in due rigonfiamenti su entrambi i Iati. Il portoricano guidò la macchina verso il bordo opposto, e la D-7 scese di giri, quando si trovò a spingere l'intero carico, blat blat blat,come un bue che tendesse i muscoli allo spasimo, mentre lo scoppiettio rallentò quanto bastava a consentir loro di contare le rotazioni.

«È un bel pezzo di macchina», commentò Tom.

«E lui è anche un bell'operatore», aggiunse Chub, in tono burbero, e aggiunse, «per essere un meccanico».

«Il ragazzo è a posto», ribadì Kelly. Si era avvicinato ai due, a osservare il portoricano che manovrava il bulldozer, e parlò come se fosse stato lì tutto il tempo; questo era il modo in cui Kelly arrivava, dovunque. Era alto, magro, con occhi verdi allungati, e una flessuosità naturale nel muoversi, come un gatto. Commentò: «Non avrei mai creduto che, un giorno, avrei visto del macchinario spedito già pronto per funzionare. Immagino che sia soltanto perché nessuno ci aveva mai pensato prima».

«Sì, oggi è possibile sbrigarsi anche con l'equipaggiamento pesante», annuì Tom. «Hanno capito che, se era possibile farlo coi carri armati, tanto più si poteva col macchinario da costruzione. Con la differenza che noi lo facciamo per costruire, e non per distruggere. Su, Kelly, avvia l'escavatore. È pronto per essere portato lassù, sul contrafforte».

Kelly balzò nella cabina del bestione e, bloccati i comandi sull'automatico, diede uno strappo alla leva d'avvio. Il Diesel Murphy sbuffò, e s'ingranò sul folle. Kelly salì in sella, diede un po' di gas, e cominciò a sollevare il braccio con la benna.

«Non riesco ancora ad abituarmi all'idea», disse Chub. «Non più di un anno fa, un simile lavoro avrebbe richiesto almeno duecento uomini».

Tom sorrise. «Già. E per prima cosa avremmo dovuto costruire un edificio per gli uffici, e poi gli alloggi. Io preferisco questo sistema. Niente cartellini da timbrare al mattino, niente sfilze di rapporti sull'uso dell'equipaggiamento, niente relazioni sui progressi compiuti e i metri di avanzamento. Niente di niente, insomma, ma soltanto otto uomini, un milione di dollari di equipaggiamento e tre settimane di tempo. Un escavatore, una D-7, un mucchio di casse piene di attrezzature, qualche telo per ripararci dalla pioggia, e le razioni dell'esercito per riempirci la pancia. Faremo tutto in un battibaleno, ce ne andremo di qui, e verremo pagati».

Rivera terminò il tratto inferiore della rampa, fece voltare la D-7, e risalì, costipando il pendio nuovo di zecca. Giunto in cima, calò nuovamente la lama e ridiscese la rampa a marcia indietro, lisciando ben bene ogni asperità. A un cenno di Tom, risalì fino al gradone, e proseguì verso il contrafforte, spianando strada facendo le gobbe rocciose e rovesciando terreno di riporto nelle cavità tra una gobba e l'altra. Lavorava cantando, all'unìsono col battito del potente motore, galvanizzato dall'estrema precisione con cui gli ubbidiva quell'enorme, implacabile macchina.

«Perché quella scimmia non se ne sta attaccata ai suoi oliatori?»

Tom si voltò e si tolse un fiammifero rosicchiato dai denti. Non disse niente, perché da qualche tempo aveva cercato di prender l'abitudine di non dir niente a Joe Dennis. Dennis era un ex contabile, tirato fuori da un ufficio e assoldato proprio all'istante dell'ultimo rantolo di un progetto defunto nelle Indie Occidentali. Era diventato operatore poiché avevano un maledetto bisogno di operatori. Era stato prontamente mollato dall'ufficio a causa della sua propensione al pettegolezzo e ai piccoli intrighi. Era un gioco, questo, al quale si dedicava tuttora, e anche a prescindere dalla faccia rossa che sembrava bollita e dal suo modo di camminare leggermente effeminato, era del tutto fuori posto li al campo, poiché leccare gli stivali e pugnalare alle spalle rendeva, lì al campo, ancora meno di quanto gli avesse reso, in concreto, all'ufficio. Tom, cercando con tutte le sue forze di concentrare la mente sui lavori, fu costretto ad ammettere che, fra tutte le più odiose caratteristiche di Dennis, la peggiore era il fatto, innegabile, che era un bravo operatore, all'altezza dei migliori.

Dennis non lo negava di certo.

«Un tempo, chiunque avesse sorpreso uno di questi "goony" anche soltanto seduto su una delle macchine durante il pranzo, l'avrebbe preso a calci in culo», brontolò Dennis. «Adesso gli dànno il lavoro di un uomo e la paga di un uomo».

«Non sta forse facendo il lavoro di un uomo?» disse Tom.

«È un portoricano!»

Tom si girò e lo guardò freddamente. «Di dove hai detto che venivi, tufece, soprappensiero. «Ah, sì. Dalla Georgia».

«Cosa vorresti dire, con questo?»

Tom si stava già allontanando a grandi passi. «Te lo dirò quando sarà il momento», replicò, senza voltarsi. Dennis tornò a fissare la D-7.

Tom diede una rapida occhiata alla rampa, poi invitò Kelly con un cenno a procedere. Kelly inserì il blocco, in modo che il lungo braccio non potesse oscillare, innestò la marcia di trasferimento, e spinse in avanti la leva. Con un assordante crepitio di brecciame corallino che veniva schiacciato, i grandi cingoli dell'escavatore portarono la macchina fin sulla rampa. Quando attaccò il pendio, le valve della benna in acciaio al manganese si aprirono e si chiusero sbattendo, come una bocca vorace, piombando poi nel silenzio. Il grosso Diesel Murphy cantava sommesso, cavernoso, sotto pressione, mentre la macchina s'inerpicava, poi s'inserì il regolatore automatico dei giri, e ricominciarono i tonfi, come un ventre titanico percosso da pugni.

Peebles era in piedi accanto a uno dei vagli, intento a succhiare la pipa e a guardare il mare. Aveva i capelli brizzolati e una corporatura massiccia; da sotto le sopracciglia cespugliose guardavano i più tranquilli occhi grigi che Tom avesse mai visto. Peebles non se l'era mai presa con una macchina — una caratteristica rara in un meccanico nato — e in cinquant'anni aveva imparato che serviva ancora meno prendersela con un uomo. Poiché, di qualunque cosa si trattasse, era sempre possibile riparare il guasto di una macchina. Disse, parlando intorno al cannello della pipa: «Spero che mi ridarete presto il mio ragazzo».

Le labbra di Tom si piegarono in un lieve sorriso. C'era stato un accordo fra lui e il vecchio Peebles, fin da quando si erano incontrati. Una di quelle cose che esistevano, anche se non c'era bisogno di dirle — i due sapevano assai poco l'uno dell'altro, poiché non avevano mai trovato necessario chiacchierare per cementare la loro amicizia. Era sufficiente sapere che ognuno di loro poteva aspettarsi il meglio dall'altro, sempre.

«Rivera?» chiese Tom. «Te lo rispedisco non appena avrà finito quella pista per l'escavatore. Perché? Hai qualcosa che bolle in pentola?»

«Voglio svuotare e risciacquare quella saldatrice ad arco e metter su un banco di lavoro, nel caso in cui voi ragazzi rompiate qualcosa». Fece una pausa. «Inoltre, quel ragazzo si sta riempiendo un po' troppo la testa con troppe cose nello stesso tempo. La meccanica è una cosa. Far l'operatore è tutto un altro discorso».

«Finora non mi pare che abbia interferito molto col suo lavoro, no?»

«No, certo. E non voglio neanche che succeda. A meno che tu non ne abbia proprio bisogno».

Tom si arrampicò sopra il vaglio. «Non ne ho poi tutto questo bisogno, Peeby. Ma intanto, se vuoi un po' di aiuto, prenditi Dennis».

Peebles non disse niente. Sputò. Ma non parlò affatto.

«Cosa c'è con Dennis?» volle sapere Tom.

«Guarda laggiù», disse Peebles, agitando il cannello della sua pipa. Là, sulla riva, Dennis stava parlando con Chub, nell'inconfondibile stile di Dennis, in piedi accanto a Chub, una mano sulla spalla di Chub. Mentre guardavano, videro Dennis chiamare il suo inseparabile amico, Al Knowles.

«Dennis parla troppo», osservò Peebles. «Di solito non è grave, ma quel Dennis a volte dice troppo. Non ha certo i numeri per fare la prima donna, e lo sa. Così, si rifà seminando la discordia fra la gente».

«È innocuo», replicò Tom.

Sempre con gli occhi fissi alla riva, Peebles disse lentamente: «Lo è stato, fino ad ora».

Tom fece per ribattere qualcosa, poi scrollò le spalle. «Ti manderò Rivera», disse, e apri la valvola a farfalla. Come una gigantesca dinamo elettrica, il motore a due tempi produsse un gemito crescente. Tom sollevò la lama azionando una piccola leva accanto al fianco destro, e alzò il vaglio con la lunga asta di controllo che sporgeva da dietro la sua spalla. Si allontanò, chiudendo il portello posteriore, cosicché qualunque cosa la lama avesse colpito scorresse via di lato invece di finire dentro il vaglio. Innestò la sesta e con un uggiolio raggiunse e aggirò il lento escavatore meccanico, passando giusto sotto il braccio della benna e correndo avanti, con la lama che toccava appena il suolo, rastrellando e livellando perfettamente la strada di servizio che Rivera aveva appena tracciato.

 

Dennis stava dicendo: «È quella specie di Hitler. Perché dovrei permettergli di parlarmi così? "Vieni dalla Georgia" dice lui. E lui, cosa crede di essere? Un americano o cosa?»

«Un grand'uomo di Macon», ridacchiò Al Knowles, che veniva anche lui dalla Georgia. Era alto e affilato, le spalle arrotondate. Tutte le sue capacità erano racchiuse nelle mani e nei piedi, poiché il cervello era un organo di cui aveva fatto a meno per tutta la sua vita, fino a quando non aveva incontrato Dennis, modellandolo allora fedelmente al suo.

«Tom non intendeva dir niente, con ciò», disse Chub.

«No, non intendeva dir niente. Soltanto che noi dobbiamo far le cose che dice lui, e alla maniera che dice lui, specialmente se scopre che c'è una maniera che non ci piace. Tu non faresti così, Chub. Al, tu pensi che Chub farebbe così?»

«Certo che no», annuì Al, sentendo che era ciò che ci si aspettava da lui.

«Sciocchezze», replicò Chub, insieme soddisfatto e inquieto, mentre pensava: Cos'ho contro Tom? Non avrebbe saputo dire perché, ma Tom non gli garbava più come una volta. «Qui è Tom che dirige, Dennis. Abbiamo un lavoro da fare: diamoci sotto e finiamolo. Sono soltanto tre schifose settimane: possiamo reggere allo sforzo».

«Oh, certo», disse Al.

«Si può reggere solo fino a tanto», ribatté Dennis. «Perché mai hanno messo a comandare un uomo come quello, Chub? Cosa ti succede? Tu non sai spianare e drenare il terreno bene quanto Tom? Ce la farebbe Tom a picchiettare il fianco di una collina bene quanto sapresti farlo tu?»

«Oh, sì, certo, ma che differenza fa, visto che questo campo bisogna ben costruirlo, no? E comunque, a chi diavolo importa fare il capo? Ci vuol bene qualcuno che si prenda le colpe, se qualcosa dovesse andare storto, no?»

Dennis fece un passo indietro, togliendo la mano dalla spalla di Chub, e piantò un gomito nelle costole di Al.

«Visto, Al? Ecco un uomo sveglio. È proprio la cosa che lo zio Tom non si aspettava. Chub, puoi contare su Al e su di me, per fare qualche cosuccia».

«Fare qualche cosuccia?» chiese Chub, sinceramente perplesso.

«Proprio come hai detto tu. Se qualcosa va storto, è il capo che si prende la colpa. Perciò, se il capo non si comporta come si deve, il lavoro va storto».

«Uh-uh», annuì Al, con la convinzione che gli veniva dalla sua semplicità mentale.

Chub afferrò in ritardo quel peculiare processo logico, e fu colto da un impulso di collera, poiché la conversazione gli sfuggiva di mano. «Io non ho detto niente del genere! Questo lavoro si farà, non importa cosa! Hitler non appenderà addosso nessuna croce di ferro né a me né a nessun altro, qui attorno, se dipenderà da me!»

«Questo è lo spirito giusto», esclamò Dennis, fingendosi d'accordo. «Mostreremo a quell'individuo cosa pensiamo dei suoi sabotaggi».

«Tu parli troppo», disse Chub, e se la squagliò con quel poco che gli restava di coerenza. Tutte le volte che parlava con Dennis, si allontanava, poi, con la sensazione di avere un tesserino d'iscrizione non richiesto nel taschino, del quale, però, sentiva di non potersi liberare con la coscienza tranquilla.

 

Rivera tracciò la pista fin sotto il contrafforte, fece girare la D-7, innestò la frizione, riducendo così il numero dei giri. Tom stava arrivando, completando la sua passata col vaglio; quando lo raggiunse, Rivera scivolò fuori dal seggiolino, appoggiando la sua mano sensibile al rivestimento del motore e a quello delle grandi ruote palettate, controllando se vi fosse surriscaldamento. Tom gli si portò accanto e gli fece segno di salire accanto a lui.

«Que pasa, Goony? Qualcosa che non va?»

Rivera scosse il capo e sogghignò. «Niente che non va. È perfetta, questa De-Siete. È...»

«Che cosa? Daisy Etta?»

«De-Siete. D-7 in spagnolo. Vuol dire qualcosa in inglese?»

«Ti ho capito male», sorrise Tom. «Ma Daisy Etta in inglese suona lo stesso, ed è il nome di una ragazza».

Mise il vaglio in folle, inserì la frizione e saltò giù dalla macchina. Rivera lo seguì. Salirono ambedue sulla D-7, con Tom ai comandi.

Rivera ripeté: «Daisy Etta»,e sogghignò rumorosamente, allargando la bocca fino ai molari. Allungò la mano, piegò il mignolo intorno a una delle lunghe leve della frizione, e la tirò completamente indietro. Tom scoppiò in una risata.

«Hai davvero qualcosa in mano», dichiarò. «Il cingolato più manovrabile che sia mai stato costruito. Frizione e freni idraulici che ti fanno fermare di botto soltanto se ci sputi sopra. Leve per marcia e retromarcia, così hai tutte le marce sia in avanti che indietro. Un po' diverso da quei vecchi macinini. Otto anni fa, non avevano il cambio a moltiplicatore di pressione: ci voleva una trazione di trenta chili per tirare indietro una leva della frizione. Sbancare una collina con una ruspa a lama obliqua era qualcosa di sfiancante, in quei giorni. Dovevi provarci, a sbancare con una mano, e a tenerle il naso fuori della scarpata con l'altra, per dieci ore al giorno. E quanto ci guadagnavi? Ottanta cent all'ora, e...» Tom si tolse la sigaretta di bocca e spense la punta accesa sul palmo pieno di calli, «... questi».

«Santa Maria!»

«Ora senti, Goony. Voglio dare un'occhiata al promontorio, a quelle rovine lassù. Ci vorrà almeno un'ora prima che Kelly arrivi fin qui con l'escavatore».

Cominciarono a risalire il pendio, con Tom che saggiava il terreno sotto la spazzola da un metro e venti, facendola avanzare a zig-zag come se salisse una strada tutta tornanti sul versante d'una montagna. Malgrado la D-7 avesse una vistosa marmitta sul tubo di scappamento che si protendeva dal cofano davanti a loro, il ruggito di quattro grossi cilindri che trascinavano quattordici tonnellate d'acciaio in salita riusciva a sovrastare ogni conversazione, per cui non parlarono. Tom era alla guida, e Rivera fissava le sue mani che sfioravano appena i comandi.

Il contrafforte cominciava con un basso rilievo allungato, e si prolungava poi ad attraversare l'intera isola, come una spina dorsale asimmetrica. Verso il suo centro, s'innalzava all'improvviso, spingendo fuori una propaggine che creava l'affioramento roccioso sulla spiaggia dove avevano scaricato i loro macchinari, e continuava a sollevarsi formando un piccolo altipiano quasi quadrato, di mezzo miglio di lato. Parve a loro gibboso, accidentato, finché non poterono averne una visione d'insieme. Soltanto allora si resero conto che in realtà era incredibilmente livellato, sotto le rovine e i cespugli che lo coprivano. Al centro — anzi, esattamente al centro, come si resero conto tutto d'un tratto — c'era un basso monticello coperto di vegetazione. Tom mise la frizione e abbassò il numero di giri.

«Stando al rapporto sui rilevamenti, quassù dovrebbero esserci un bel po' di pietre», disse Tom, saltando giù dal seggiolino con una piroetta. «Facciamo un giro qui intorno».

Si avviarono verso il monticello centrale. Tom prese a esaminare il terreno tutt'intorno. Si chinò sull'erba corta e folta e raccolse una scheggia di pietra, azzurro-grigia, dura e fragile.

«Rivera, guarda qui. È di questa che parlava il rapporto. Guarda, ce ne sono ancora. Tutti pezzettini, però. Avremo bisogno di roba più grossa per l'acquitrino, se riusciremo a trovarla».

«È pietra buona?» chiese Rivera.

«Sì, ragazzo, ma non viene da qui. Tutta l'isola è di marna, sabbia e arenaria, sull'affioramento laggiù. Questa è pietra azzurra, basalto, duro come l'inferno. Non ho mai visto roba simile su una collina di marna. O vicino ad essa. Ad ogni modo, fruga qui intorno e guarda se ti riesce di trovare qualcosa di più grosso».

Proseguirono. D'improvviso, Rivera si abbassò e scostò l'erba.

«Tom, qui ce n'è una grossa».

Tom si avvicinò e fissò l'angolo della pietra che spuntava dal terriccio. «Già, Goony. Porta qui la tua amichetta e guardiamo un po' di tirarla fuori».

Rivera tornò indietro all'oziosa ruspa, e vi salì. Portò la macchina là dove Tom aspettava, si fermò, si alzò in piedi e sbirciò oltre la parte anteriore della macchina per localizzare con precisione la pietra, poi tornò a sedere e cambiò marcia. Prima che la macchina tornasse a muoversi, Tom fu sul parafango, al suo fianco, e gli calò una mano sul braccio per fermarlo.

«No, ragazzo, no. Non la terza. La prima. E mezzo gas. Ecco, ora va bene. Non cercare mai di sradicare una roccia dal suolo a forza di urtoni. Avvicinati piano, appoggiaci contro la lama, sollevala fuori, non spingerla fuori a calci. E prendila col mezzo della lama, non con l'angolo, fai gravare il peso su entrambi i cilindri idraulici. Chi ti aveva detto di far così?»

«Nessuno me l'ha detto, Tom. Ho visto qualcuno che lo faceva, e ho pensato di farlo anch'io».

«Sì? E chi era?»

«Dennis, ma...»